Di Vincenzo Colozza
Non è andato a buon fine il tentativo di un gruppo familiare di incastrare con false testimonianze un vicino di casa che aveva chiesto al Comune di Bojano di far riaprire i fossi vernili occlusi dalle costruzioni di fabbricati risultati non in regola con le concessioni edilizie riscontrate da un sopralluogo dell’Ufficio tecnico cittadino. Il giudice Incoronata Padula infatti lo ha assolto perché il fatto (vale a dire l’argomentazione portata per incastrare il cittadino denunciante) non sussiste; ciò, a seguito delle testimonianze di ben quattro pubblici ufficiali (tutti dipendenti comunali) che hanno smentite clamorosamente le false testimonianze costruite a tavolino, evidentemente durante una riunione familiare, dalle sei persone accusanti, tutte legate da stretti vincoli di parentela.
A monte della vicenda e del dissidio tra vicini di casa è la carenza di controlli da parte degli organi locali preposti, inerenti le costruzioni selvagge anche se munite di concessioni edilizie discutibili rilasciate dal Comune. Nel territorio cittadino, infatti, vi sono diversi fabbricati costruiti su canali di scolo, manufatti carenti di autorizzazioni specifiche, come impone la normativa, in violazione appunto dell’articolo 13 del Regolamento d’igiene locale in vigore dagli anni sessanta, cosa che purtroppo è causa di frequenti e vasti allagamenti in occasione di forti temporali.
La vicenda, tra l’altro, non doveva neanche arrivare in giudizio, ma si sarebbe dovuta fermare alla fase preliminare con l’archiviazione, se fosse stata effettuata un’attività istruttoria completa con l’audizione delle testimonianze dei quattro pubblici ufficiali, un agente di polizia municipale e tre geometri comunali. I pubblici ministeri dovrebbero indagare non solo sull’attendibilità del denunciante, ma anche alla ricerca di prove a favore del denunciato, cosa che non sempre succede. Ciò comporta non solo un processo contro una persona innocente, ma anche un’ulteriore mole di lavoro per la macchina giudiziaria, oltre che spese aggiuntive per lo Stato.
I fatti. L’imputato, risultato poi innocente, a seguito di alcune nuove costruzioni e baracche dei vicini sui fossi di scolo occlusi con danni alla sua proprietà, aveva dapprima invitato bonariamente questi ultimi a ripristinare il deflusso dell’acqua piovana, poi visto che le sue parole non avevano sortito alcun effetto, si era rivolto al Comune per verificare la funzionalità dei fossi vernili essendo in vigore non solo un vecchio regio decreto e un’ordinanza sindacale che impongono la loro manutenzione, ma anche articoli del codice civile sullo scorrimento delle acque da monte a valle. Il sopralluogo dei tecnici ha riscontrato che un fabbricato era totalmente abusivo, un altro solo parzialmente, mentre alcune baracche per rimesse di animali domestici e attrezzi agricoli erano sprovviste di autorizzazioni. Di conseguenza sono state emesse tre ordinanze di ripristino dei luoghi dall’Ufficio Tecnico del Comune. Dal momento in cui era stato avviato l’iter di controllo al sopralluogo, c’era stato anche il tentativo dei componenti del gruppo familiare di bloccare le verifiche e neutralizzare il vicino di casa da successive azioni, con una nota, indirizzata all’allora commissario prefettizio, nella quale i proprietari dei citati immobili si riservavano di denunciare sia lo stesso vicino di casa che i quattro pubblici ufficiali perché a loro dire nel giorno del sopralluogo erano entrati nella proprietà privata senza autorizzazione. Alla fine l’unico che è stato querelato per violazione di domicilio dalla proprietaria e dai suoi due figli è risultato il vicino di casa, indicando nell’esposto come testimoni l’anziana madre, suo marito e lo zio di questi, cioè familiari e parenti.
Dopo qualche mese è stato notificato dalla Procura di Campobasso un avviso di conclusione indagine al vicino di casa in cui risultava indagato per violazione di domicilio. Con il suo legale, avv. Alfonso Mainelli, l’indagato (poi imputato) s’è subito recato presso la Stazione locale dei Carabinieri, dove nel dichiarare la sua estraneità ai fatti che gli venivano attribuiti, indicava a sua discolpa i quattro pubblici ufficiali presenti nel giorno del sopralluogo. La PM Di Palma delegava quindi il maresciallo Michele Palermo, in forza alla Stazione di Bojano, ad ascoltare i testimoni menzionati dall’indagato per verificare la sua ipotesi difensiva. Il sottoufficiale, stranamente, disattendeva alle disposizioni del magistrato non chiedendo ai quattro dipendenti comunali se l’indagato fosse entrato o meno nella proprietà dei denuncianti. Il maresciallo rimetteva poi alla Di Palma l’esito dell’interrogatorio e il pubblico ministero anziché chiedere nuovamente al sott’ufficiale di ascoltare i testimoni a discolpa dell’indagato sul fatto specifico, dato che non aveva ottemperato a quanto ordinato, ha rinviato in maniera inusuale direttamente in giudizio l’indagato che pertanto ha dovuto affrontare un assurdo giudizio per negligenza degli organi inquirenti.
Durante le varie udienze del processo, durato circa quattro anni, le testimonianze accusatorie del nucleo familiare sono state alquanto contraddittorie tra loro, mentre i quattro pubblici ufficiali nelle loro deposizioni hanno escluso categoricamente il reato di violazione di domicilio a carico dell’imputato, sottolineando che nel giorno del sopralluogo questi non era entrato nella proprietà dei vicini.
Al termine dell’udienza, il PM di turno aveva chiesto per l’imputato otto mesi di reclusione, invece, il giudice che ha valutato con particolare attenzione le varie testimonianze, nonché le conclusioni dei rispettivi legali, avv. Massimo Romano che assisteva i componenti del nucleo familiare, e l’avv. Alfonso Mainelli difensore dell’imputato, ha assolto quest’ultimo perché il fatto non sussiste. Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro 90 giorni.
Una causa irrazionale che ha sottoposto un cittadino onesto ad uno stress notevole e a un danno sia economico e sia di immagine che avrà sicuramente risvolti nei confronti dei componenti del nucleo familiare, i quali adesso dovranno rispondere dell’accusa di calunnia, reato perseguito dal Codice Penale che punisce l’autore delle accuse dimostrate false sia per l’aver incolpato qualcuno ingiustamente sapendolo innocente, sia per il dispendio inutile di risorse causato all’Autorità giudiziaria per avviare la macchina della giustizia. Va ricordato che il reato di calunnia, procedibile d’ufficio, è punito con la reclusione da 6 fino a 12 anni a seconda dei casi.