Di Vittorio Venditti
E La Criminalità Ringrazia
Ho più volte farneticato del fatto che la scuola italiana, antepone il ventre dei docenti al cervello dei discenti e fatti salvi i pochi poli d’avanguardia, dai quali escono i pochi cervelli che poi regolarmente abbandonano il suolo patrio, siamo arrivati alla frutta, che forse qualcuno, in prossimità di una futura campagna elettorale, vorrebbe far ingerire a chi, precario, ancora cerca di attingere al vecchio carrozzone.
A tutto ciò, va poi aggiunta la cronica mancanza di sicurezza che contraddistingue la maggior parte degli edifici scolastici italiani, e la volontà assassina di chi, per propri tornaconti politici, cerca di bloccare qualsiasi tentativo di ribellione, cosa ormai necessaria per mettere in luce questo non secondario problema, e cercare di risolverlo, prima che ci scappi il morto e che il “Solerte Magistrato”, anch’esso invischiato in giochi di potere, metta tutto a tacere con il classico insabbiamento.
Ripetute le solite cose che accadono in tutt’Italia giornalmente, cose diventate per forza la normalità, passiamo al fatto che, se da una parte mi fa sorridere, dall’altra, avendo solo toccato il campo dell’insegnamento, mi fa indignare all’inverosimile, visto che a mio parere la storia che di seguito ti propongo è il naturale frutto, nato da un insegnamento non insegnamento, che negli anni successivi al sessant’otto e per colpa di quelle riforme viene proposto dall’italica scuola.
Ecco quanto accaduto nei giorni scorsi a Roma, in un quartiere-parcheggio, che ben somiglia alla scuola della quale siamo costretti a sparlare:
Mamma chiama il 113: «Mio figlio non vuole fare i compiti» – Il Messaggero.
A chi dare la colpa di questo bailamme?
Innanzitutto, va considerato il fatto che i figli sono sotto la responsabilità di chi li mette al mondo, e che non esiste giustificazione alla mancanza di autorevolezza di genitori, sempre più convinti che la scuola e le istituzioni siano la naturale sponda per la loro mancanza di voglia di sacrificarsi e di saper tenere il polso della situazione, dando le vere basi di educazione alle quali i figli, almeno finché non divengano maggiorenni e responsabili di sé stessi, devono attenersi.
Oggi più di ieri, si vedono coppie che al primo momento di difficoltà, sia economiche, sia sentimentali, anziché fermarsi a riflettere per trovare un punto di accordo e continuare a vivere il progetto di famiglia intrapreso, sfasciano lo sfasciabile, in nome di una libertà perduta.
Tornando alla scuola invece, dopo aver detto il dicibile e taciuto (almeno per ora) l’indicibile, in merito a sicurezza ed impiego forzato di insegnanti che spesso sono più numerosi degli alunni, passiamo ai frutti che derivano dall’andazzo che sto descrivendo.
Come detto, io ho avuta la fortuna di trovarmi come alunno, in una di quelle scuole che venivano definite “Sperimentali”, (quando quel modus operandi, messo in atto più di trent’anni fa, oggi dovrebbe essere la normalità), scuole nelle quali, con docenti poco precari ma molto preparati, si poteva imparare qualcosa di più e percentualmente in maniera migliore.
Parlo della scuola dell’obbligo.
Una cosa però mi è venuta subito in mente, considerato che fin da piccolo, per necessità e rivalsa, ho sempre pensato di dover trarre tutto il possibile insegnamento in maniera spesso vampiresca ma con risultati che in linea di massima mi hanno soddisfatto, anche in considerazione dell’aver imparato che nulla è fine a sé stesso, mettendo poi in pratica questa teoria che oggi mi dà da mangiare senza l’aiuto di nessuno, a parte la mia caparbietà ed il mio modo di reinvestire parte del mio guadagno.
Ho dovuto imparare che per avere un’ottima istruzione, anche in presenza di ottimi docenti, l’alunno ci debba mettere del suo, in termini d’inventiva e di sapersi districare fra maglie ed ostacoli spesso improvvisi, spesso preparati ad arte dalla vita che si presenta giorno per giorno.
Altro, cosa ben più importante, ho dovuto imparare frequentando la scuola superiore che (contro la mia volontà) mi ha costretto ad un’ulteriore sfida: l’insegnamento, quella cosa difficilissima da compiere, ma ancor più dura se associata a mancanza di motivazione o, peggio, ad interessi che vanno al di là del puro insegnare.
In quel caso, ho dovuto imparare qual è la chiave del vero saper insegnare:
IL SAPER ASCOLTARE E METTERSI IN DISCUSSIONE MOMENTO PER MOMENTO.
Il saper comprendere che se un alunno non ha assimilato l’insegnamento proposto dal docente, spesso la colpa va attribuita al modo di trasmettere quanto si vuole insegnare e soprattutto alla predisposizione all’ascolto, impartita a chi deve ricevere, mediante forme d’interessamento che variano da persona a persona.
Questo fatto, a lungo andare mi ha fatto e purtroppo ancora mi fa comprendere perché, nonostante la preparazione di pochi docenti, nulla viene fatto per incrementarne il numero, nulla viene fatto per ridurre la moltitudine di ragazzi che, non trovandovi interesse, abbandonano più o meno lecitamente la scuola.
Voglio dire che, com’è accaduto a Gambatesa ai miei fratelli e non solo, cui la scuola ha insegnato ad odiare a tal punto l’imparare, da costringere questi alunni a schivare come possibile ogni manuale, a costo di apprendere il necessario in maniera empirica e spesso sbagliata, così accade nella maggior parte delle scuole d’Italia, costringendo con la noia i ragazzi ad abbandonare qualcosa che non sanno considerare il proprio tesoro per il futuro.
A Gambatesa, lo posso dire a testa alta, la scuola ha dato a chi veniva ritenuto importante o d’alto censo, maltrattando il resto della popolazione scolastica.
A Gambatesa, questi pseudo insegnanti, con somma invidia, hanno dovuto però registrare che il metodo da me utilizzato e trasferito a chi ne ha voluto beneficiare, ha portato frutti in termini di concorsi vinti, alla faccia del politicamente corretto, basato sulla pratica dell’unzione.
Passando al terzo soggetto, la Polizia, che con la scuola non dovrebbe entrarci, posto che la stessa sia in grado d’insegnare la legalità, non resta altro da fare che ringraziarne gli agenti che, loro malgrado, si sono trovati a dover “insegnare” e fare da “genitori” a colui che, fra tutti, è stato il più innocente o almeno il meno colpevole, quel ragazzo che per l’età che ha, non può non essere ribelle, ma può essere domato, con l’autorevolezza dei genitori e la capacità d’insegnamento della scuola.
Quel ragazzo che, come detto dai poliziotti, non deve finire come pacco omaggio, alla criminalità organizzata che infesta quel quartiere e che non aspetta altro.
Ma come fare per far sì che ciò non avvenga?
Leggendo l’articolo che ho rimesso al tuo esame, già ho potuto notare che anche lo scrivere di chi ci propone la notizia, è intriso di pessimismo se non di voyeurismo.
Chi scrive, anziché provare ad analizzare cosa sia successo nella testa di quel ragazzo, da provocare il corto circuito che impone a lui di non fare i compiti ed alla madre di arrivare al punto di dover chiamare la polizia, si pone un’altra domanda che a suo dire “nasce spontanea: la prossima volta questa mamma che farà?”, come a dire: ci sarà qualche altra notizia morbosa alla quale appigliarci per vendere qualche copia in più?
Tutto parte dalla scuola e così chiudiamo il cerchio.
I genitori non sanno fare più i genitori;
gl’insegnanti non sanno più insegnare;
I poliziotti non possono più fare in pace il proprio lavoro;
I giornalisti sanno sguazzare invece di saper indirizzare alla riflessione.
E poi, si pretende anche che altri mettano al mondo bambini?
A che titolo?
Per creare problemi a chi fa figli e poter comandare su questi sventurati, non sapendo più come acquisire potere con metodi più seri?