Di Veronica Tanno
Continuano le attività del laboratorio giornalistico multimediale OFFICINA D’AUTORE degli studenti e per gli studenti dell’Istituto Pertini-Montini-Cuoco
“Siamo tutti nel fango, ma alcuni di noi guardano le stelle”, (O. Wilde). – Per la Rubrica rest@casa della redazione giornalistica on line OFFICINA D’AUTORE le riflessioni della futura dottoressa – perché questa sarà la sua professione da grande – Giada Borrelli.
Ormai prossima al diploma, la studentessa della Quinta “F” dell’Istituto Biotecnologico Pertini Indirizzo Biotecnologie sanitarie ha voluto regalarci le sue considerazioni in merito alla difficile situazione che tutti noi stiamo vivendo a causa dell’emergenza Covid-19, come invito a onorare la vita, a rispettare l’altro, a seguire comportamenti responsabili, pensando prima agli altri e poi a sé stessi. Come invito a ringraziare i medici e tutto il personale sanitario perché quella degli operatori sanitari non è una semplice professione ma è una missione.
LA NUOVA QUOTIDIANITA’ di GIADA BORRELLI
ventuno febbraio duemilaventi. Tutto è iniziato così, un venerdì di febbraio, nessuno poteva crederci e invece l’epidemia, da quella cittadina in provincia di Lodi, Codogno si è diffusa, a macchia d’olio, nella nostra Penisola, regione dopo regione, attraversando montagne, colline e mari fino a giungere nelle isole. Un mese prima, il dieci gennaio, la notizia della presenza di un nuovo virus, estremamente contagioso, veniva divulgata in tutto il mondo.
È proprio vero, è insito nella natura dell’essere umano non dare peso a tutto ciò che è lontano, i problemi acquisiscono importanza solo quando li si vive da vicino. “Qui non arriverà mai”, questo il pensiero degli Italiani, degli Europei, degli Americani, eppure i settemilacinquecentosessantadue chilometri che separano l’Italia dalla Cina non sono bastati, il SARS-COVID 19 è arrivato anche nelle nostre case. L’undici marzo, l’OMS dichiara che il coronavirus è una pandemia.
Guardiamo indietro, il passato insegna e la storia si ripete, mai queste frasi furono così vere. Non ci sembrerà vero, ma dobbiamo catapultarci ai tempi dei Greci, precisamente nel quattrocentotrenta avanti Cristo, anno in cui, secondo la testimonianza di Sofocle, autore della tragedia Edipo re, si affronta il tema di una “grande malattia”, la peste. “Nella città di Atene piombò improvvisamente, e dapprima contagiò gli uomini al Pireo, così che da questi fu detto, che i Peloponnesiaci avevano gettato dei veleni nei pozzi, infatti, là non vi erano ancora fontane. Poi raggiunse anche la città alta e già molto di più morivano. Dica, dunque, riguardo a ciò ciascuno a seconda delle sue conoscenze sia il medico sia il profano, da che cosa era probabile che essa fosse sorta, e dica quali cause di un simile sconvolgimento ritiene siano capaci di avere una forza tale da provocare il cambiamento (dello stato di salute)”. Queste sono le parole dello storico greco Tucidide attraverso le quali è facile notare come tutto risulti molto familiare alla situazione che anche noi, con il dilagare del coronavirus, stiamo vivendo: come la peste, questo nuovo flagello si è abbattuto, improvvisamente e inaspettatamente, sul nostro mondo in cui tutti credono di non aver bisogno degli altri, tutti si sentono superiori, in cui l’amore ormai è percepito, a mio avviso, come un sentimento raro, introvabile come l’acqua nel deserto, un mondo in cui ci si sente invincibili e, soprattutto, in cui ognuno pensa di poter essere “il cambiamento” quando, in realtà, siamo tutti omologati, schiavi del consumismo e del conformismo di massa. Dunque, oggi come all’ora, si va alla ricerca degli untori, in Grecia li avevano identificati nei Peloponnesiaci, noi, prima abbiamo additato i Cinesi e, purtroppo, da qualche giorno, anche nella nostra piccola comunità campobassana abbiamo riversato le nostre ansie, i nostri timori, le nostre preoccupazioni sui cittadini molisani, di origine rom, insediati, da secoli, nel capoluogo molisano. In realtà, dopo diverse settimane in cui la curva epidemiologica dei contagi in Molise era scesa ai livelli di sicurezza non allarmanti, nell’arco di pochissimi giorni, decine di componenti della comunità rom sono risultati positivi ai test, la notizia è rimbalzata, come un boomerang, tra gli abitanti della città e del resto del territorio e, come spesso accade, il pregiudizio popolare ha avuto il sopravvento e non ha tardato a palesarsi fomentato anche da un certo tipo di stampa che ha diffuso notizie e articoli di stampo discriminatorio. C’è ancora un altro aspetto, a mio avviso molto significativo, che si evince dalle parole di Tucidide, è la modalità con cui ciascuno di noi, in queste situazioni, esprime la propria idea senza che essa abbia, necessariamente, basi razionali o scientifiche, ciò, di conseguenza, genera il panico che, a sua volta, diventa psicosi grazie al potente ed ingestibile strumento, Internet, che permette, a chiunque, di scrivere qualsiasi cosa e di diffonderlo in tutto il mondo, in brevissimo tempo. L’odio razziale si è manifestato questa mattina, (dodici maggio duemilaventi ndr) a Isernia, città in cui è stato vietato l’accesso, ad un supermercato, a un giovane di etnia rom e non posso non far riferimento a ciò che ho appreso quest’anno, studiando il totalitarismo fascista in Italia e l’emanazione delle leggi razziali del millenovecentotrentotto, che proibivano l’accesso ai luoghi pubblici, ai negozi degli Ebrei. Mi sono interrogata su ciò che è avvenuto e mi sono chiesta: perché sappiamo distinguere ciò che è vero da ciò che falso leggendo le numerosissime fake news che si sono diffuse sui giornali e nella stampa on line, come ad esempio il fatto che il virus potesse trovarsi nel cibo o che le persone abbiano smesso di frequentare alcuni ristoranti di sushi giapponesi e cinesi e non riusciamo a capire che ogni persona è diversa dall’altra e non bisogna discriminarla solo perché appartiene a un’etnia, in questo momento sotto accusa? Ma il sushi non è giapponese? Certo che si, quel ragazzo è uno zingaro? Certo che sì, ma è ormai consuetudine prendere tutte le notizie per buone, colpevolizzare senza conoscere, senza informarsi e, di conseguenza, sviluppare un proprio pensiero critico fidandosi dei luoghi comuni. Qual è la parola che più spesso sentiamo nominare in questo periodo quando si parla di fake news e dell’influenza che esse hanno sulla società? Psicosi. Cosa vuol dire? Ci viene in aiuto Freud che, nel suo scritto Nevrosi e Psicosi, pubblicato quasi un secolo fa, nel 1923, chiarisce la differenza tra questi due termini che stanno ad indicare due diverse patologie, pertanto, ad oggi, si fa un uso improprio di questa parola per indicare la paura che, portata all’esasperazione, diventa morbosa.
Personalmente, mi ritengo molto fortunata perché, anche se fosse stato facile lasciarsi convincere dalle innumerevoli notizie circolanti in Internet, soprattutto all’inizio, quando tutti ci siamo ritrovati, dall’oggi al domani, catapultati in una situazione così complicata, sono riuscita, grazie a ciò che questa scuola mi ha insegnato, a discriminare ragionando, senza allarmarmi inutilmente.
Non è affatto una situazione facile, ma sin dal primo giorno, ho capito quanto fosse importante seguire tutte le direttive impartite dal governo per il bene di tutti, ritengo davvero egoista il comportamento di chi non ha affatto rispettato le restrizioni, soprattutto per tutti coloro che sono considerati i soggetti più a rischio, ossia i nostri nonni e bisnonni che hanno contribuito a ricostruire il paese dopo due grandi guerre, che hanno lottato per ottenere tanti di quei diritti che, ad oggi, ci sembrano così scontati e che, con tanto amore, hanno lasciato in eredità ai nostri genitori e a noi. Non nego che questo periodo mi abbia scossa e catapultata in una realtà che, fino ad oggi, avevo soltanto studiato sui libri di storia: il numero sempre maggiore di morti, le immagini strazianti trasmesse dai telegiornali, le testimonianze delle persone ricoverate, la sofferenza delle persone che, anche se non sono state affette dal virus, pagano le conseguenze delle innumerevoli chiusure, mi hanno resa partecipe, inevitabilmente, del loro dolore e ciò condiziona anche le mie aspettative per il futuro che, conseguentemente, sono più che mai incerte. Tuttavia ho capito che, se fino ad oggi mi sono sentita come Italo Svevo, un’inetta, adesso so che voglio e posso realizzare il mio sogno sin da quando ne ho memoria: aiutare gli altri, tutti indistintamente, mi impegnerò affinché possa diventare una brava dottoressa come i tanti medici-guerrieri che combattono, quotidianamente, contro il loro nemico, il COVID-19.
Sono fiduciosa, credo nei ricercatori di tutto il mondo che hanno deciso di dedicare la loro vita alla scienza, mi auguro che ognuno di noi riesca a trarre un qualcosa di positivo da questa esperienza, probabilmente sbaglio, ma credo che si possa sempre trovare, anche se a volte è più difficile, un modello d’insegnamento, uno scopo per lottare e guardare, serenamente, al futuro con la speranza che il mondo intero capisca che andare sulla Luna o esplorare nuovi pianeti non rende noi persone invincibili se non impariamo ad amarci di più. Concludo con una citazione di Oscar Wilde che, a mio avviso, è molto significativa in questo periodo ma che riassume il mio pensiero di oggi e di domani. “Siamo tutti nel fango, ma alcuni di noi guardano le stelle”.