Elezioni: Chi Ha Vinto?
6 Marzo 2018
A Lezione Di Giornalismo Con Donatella Perrella
6 Marzo 2018
Mostra tutto

Democratica

Della Redazione Di Democratica

n. 140 martedì 6 marzo 2018
“Non aver paura dell’opposizione. Ricorda, un aquilone si leva quando ha il vento contro, non a favore” (Hamilton Wright Mabie)

L’EDITORIALE /1

Le facce toste
che cercano il Pd
Mario Lavia
A 48 dalla chiusura delle urne si scopre che nessuno ha veramente vinto, e un po’ tutti – a cominciare dagli ambienti tecnocratico-giornalistici – chiedono al Pd di “dare i voti” a non si sa bene quale governo. C’è gente che in questi se n’è bellamente fregato delle compatibilità finanziarie pronta oggi ad alzare il ditino verso il Nazareno invitandolo al “senso di responsabilità” a “fare come Schulz in Germania”: potevano votare per il partito di Padoan, verrebbe da dire.
Ora, se c’è stato un risultato chiaro, è questo di domenica.

SEGUE A PAGINA 3
Dov’è
la vittoria?
L’EDITORIALE /2
I tre scenari davanti
a Sergio Mattarella
Stefano Ceccanti
Com’è noto l’articolo 92 della Costituzione è molto laconico sulla formazione del Governo. Si occupa solo della nomina da parte del Presidente della Repubblica. L’articolo 93 tratta del giuramento, con cui il Governo diventa operativo e infine il 94 pone un vincolo di dieci giorni per la fiducia da parte di entrambe le Camere. Tutto il resto è oggetto di consuetudini, convenzioni e prassi.Evidentemente se, specie a inizio legislatura, il risultato è chiaro, il ruolo del Presidente è notarile. Così accadeva in gran parte della cosiddetta Prima Repubblica quando il sistema era stabilizzato dall’alternatività tra Dc e Pci e nella cosiddetta Seconda a causa del nuovo bipolarismo incentivato dalle leggi elettorali selettive varate dal 1993.
Dopo il voto Resta lontanissima la soluzione per un nuovo governo: Di Maio e Salvini
non hanno i numeri. Il Pd: “Ma noi
non faremo da stampella agli estremisti”
PAGINA 3
SEGUE A PAGINA 6
PARTITO DEMOCRATICO
REGIONALI
Zingaretti vince ribaltando
il voto del Lazio
Renzi annuncia
le dimissioni.
“Ora opposizione”
PAGINA 4
Il segretario dopo la sconfitta elettorale: “Il prossimo segretario sarà eletto dalle primarie. No agli inciuci,
no ai caminetti, no all’estremismo”
PD
Ripartiamo dai territori: i dati del Piemonte
PAGINA 2
PAGINA 5
Partito Democratico
L’attacco
di Luigi Zanda
“La decisione di Matteo Renzi di dimettersi e contemporaneamente rinviare la data delle dimissioni non è comprensibile. Serve solo a prendere ancora tempo. Le dimissioni di un leader sono una cosa seria, o si danno o non si danno. Quando Veltroni e Bersani si sono dimessi lo hanno fatto e basta. Un minuto dopo non erano più segretari”.
Renzi: “Lascio la guida. Ora opposizione, non cederemo mai all’estremismo”
“No agli inciuci, no ai cami­netti ristretti, no a ogni forma di estremismo”. Può essere condensato in questa frase il messaggio che lanciato ieri Matteo Renzi annunciando le sue dimis­sioni dalla segreteria dem. Dopo la lunga notte elettorale, il leader dem si è presentato, solo, davanti a cronisti e telecamere nel­la grande sala riunioni del Nazareno: “Ho già chiesto al presidente Orfini di convocare un’assemblea per aprire la fase con­gressuale”, ha det­to. Non subito, però: “Questo accadrà al termine della fase di insediamento del nuo­vo governo”. Perché?
“Primo: dobbiamo discu­tere di quello che è successo e fare un congresso vero, con le primarie. Non un reggente scelto con il caminetto, un segretario eletto con le primarie.
Secondo: mi sento garante di un im­pegno morale, politico e culturale. In campagna elettorale abbiamo detto ‘mai con gli estremisti’ e dobbiamo mantene­re questo impegno. Ci sono tre elementi che ci separano da Salvini e Di Maio: il loro anti-europeismo, la loro anti-poli­tica, la loro modalità di fare politica at­traverso l’odio e l’insulto. I cittadini ci hanno chiesto di stare all’opposizione e lì staremo.
Che cosa farò io? Ho ricevuto migliaia di email che non mi aspettavo. Non c’è nessuna fuga, terminata la fase dell’in­sediamento del Parlamento, farò una cosa che mi affascina: il senatore semplice. E sono molto orgoglioso del ri­sultato ottenuto nel mio collegio. Si ripar­te dal basso, una cosa che deve fare tutto il Pd. Ripartiamo con l’orgoglio di dire che dopo cinque anni di governo abbiamo fatto bene. Faremo op­posizione seria ma non cederemo mai alla cultu­radell’odio. Società aperta contro società chiusa, realtà con­tro fake news, coraggio contro paura, la­voro contro sussidi, giustizia fiscale con­tro tasse piatte talmente improponibili da essere già scomparse, cultura contro giustizia fai da te e uso delle armi”.
Democratica
CONDIVIDI SU
La risposta
di Anna Ascani
“Le parole di Matteo Renzi sono chiarissime: il Pd nella prossima legislatura si collocherà all’opposizione. La prontezza con cui il senatore Zanda, decisamente più lento nella calendarizzazione di provvedimenti importanti come la legge Richetti sul superamento dei vitalizi, ha messo in discussione la decisione del segretario è sorprendente. O Zanda ha in mente un modello fatto di caminetti e inciuci oppure vuole candidarsi segretario. Tertium non datur”.
“Faremo opposizione seria ma
non cederemo mai alla cultura dell’odio”
Matteo Orfini
convoca la Direzione
LEGGI SU DEMOCRATICA.COM
“Alla luce delle dimissioni del segretario Matteo Renzi, ho convocato la direzione per lunedì alle ore 15. E dopo la direzione fisserò la data di convocazione dell’Assemblea nazionale che, come previsto da statuto, dovrà recepire le dimissioni e avviare gli adempimenti conseguenti. Questo prevede il nostro statuto, che come sempre rispetteremo”.
Carlo Calenda
si iscrive
al Partito Democratico:
”Non bisogna fare un altro partito ma lavorare per risollevare quello che c’è”
Movimento 5 Stelle e Lega
Le facce toste
che cercano
il Partito Democratico
Mario Lavia
Segue dalla prima
CONDIVIDI SU
Il popolo ha parlato: il Pd ha perso, gli altri hanno vinto. E’ la democrazia – non i presunti capricci di Renzi – ad imporre ai vincitori di trovare una soluzione. La fase è questa. Bisogna essere seri: ma ci immaginiamo se il Pd in queste ore avesse detto: alt, facciamo un gover­no tutti insieme? Ma cosa avrebbero detto gli elettori? Cosa avrebbe scritto l’austero Corriere della Sera? E i talk di La7? Non avrebbero tutti urlato all’inciucio, non avrebbero fatto colare quintali di fango verso i dirigenti del Pd assetati di potere in barba al responso degli elettori? Ma come si può pretendere dal Pd un avallo a chi ha fatto la campagna eletto­rale dicendo (con contorno di quotidiani insulti): questi sono i ministri, questi i programmi, prendere o lasciare?
Il vincitore di queste elezioni parla di Terza Repubblica ma sembra comportarsi come nella Prima. Luigi Di Maio è vittima di se stesso: si abbottona il doppiopetto e assume la postura del politico di professione in contrasto con quel set­tarismo che confina con l’autoreferenzialità – i grillini sono buoni, tutti gli altri cattivi – che è il motivo del loro successo. Un “leninismo” molto social e arruffapopoli, capace di inter­cettare il cattivo umore di larghi pezzi di società (e qui c’è del grande lavoro da fare per la sinistra riformista, un lavoro che evidentemente è stato insufficiente) in nome di promesse da quattro soldi infarcite da una retorica nuovista e “pura”. Ora i grillini si ritrovano fra le mani un problemino piccolo picco­lo: come conciliare tutto ciò che hanno detto con la necessità di fare politica. Ma non si improvvisa tutto questo in 24 ore.
Il centrodestra salvinizzato non ha neanch’esso i numeri e nemmeno la necessaria attitudine al dialogo. Appare un bloc­co ancora più statico del M5s. La crisi del berlusconismo reca con sé un’ulteriore involuzione della destra sul piano della credibilità e della affidabilità. La flat tax è un ricordo sfocato. La destra non ha più parole, solo il ghigno con cui il capo le­ghista ha già liquidato ogni ipotesi di governo che non sia di centrodestra (che come detto non ha i numeri).
Per cui la strada è davvero stretta. Per quanto possa sem­brare paradossale, tutti guardano al Nazareno. Si pretende dal Pd la soluzione di un rebus creato dagli altri. Nel dibattito che si apre nel Pd – un dibattito non semplice, com’è naturale in un partito uscito sconfitto alle elezioni – il punto di riferi­mento dovranno esserci gli italiani, non le furbizie e le conve­nienze, fino al coinvolgimento, ancora una volta, di migliaia di cittadini alle primarie. Prima l’Italia, dunque. Ma con coe­renza.
LEGGI SU DEMOCRATICA.COM
Cinquestelle bifronte: prima insultano il Pd e ora chiedono i suoi voti
Ogni azione, ogni frase ha una conseguenza. E se dovessimo elencare tutte quelle dette a sproposito dai vertici grillini dovrebbe essere facile immaginare il disagio di un partito che ha conquistato la prima posizione ma che ora deve mettersi alla difficile ricerca dei voti mancanti per ottenere la fiducia. Un esempio lampante di questo stato di cose è la posizione del leader cinquestelle Luigi Di Maio. Per cui una settimana fa, all’indomani della presentazione della sua squadra governativa, diceva che il M5s era disponibile “a mettere insieme i singoli temi con cui costruire il programma di lavori della legislatura, noi ci siamo. Firmiamo un contratto su un programma“. A patto però, di “Non discutere sui ministeri”. Il tutto dopo aver incendiato la campagna elettorale, insultando gli avversari e avvelenando i pozzi. Ieri Alessandro Di Battista ha rivendicato il primato cinquestelle ribadendo che “ora tutti dovranno parlare con noi”. Peccato che la possibilità di un dialogo è stata resa impossibile dall’atteggiamento che il M5s ha sempre assunto nei confronti dei dem. Per questo la linea definita ieri dal segretario Matteo Renzi conferma l’impostazione data in campagna elettorale: Ci sono almeno tre elementi che separano il Pd dai 5 Stelle e dalla Lega, dice in conferenza stampa: «l’antieuropeismo, l’antipolitica e l’utilizzo dell’odio verbale contro i militanti del Pd. Se siamo ‘mafiosi, impresentabili’, non fate il Governo con noi. Noi faremo l’opposizione. Gli italiani ci hanno messo a fare l’opposizione. Non diventeremo la stampella per delle forze antisistema».
Regionali
Un miracolo chiamato Zingaretti
Il Governatore del Lazio vince sfiorando il 34 per cento dei consensi
Lo ha detto e ripetuto ogni giorno della sua campagna elettorale: uniti si vince. E Nicola Zingaretti ha vinto. E’ stato il primo Presidente uscente della Regione Lazio ad essere rieletto. Il primo a cui i cittadini laziali hanno riconosciuto il merito di aver lavorato bene. Aveva pre­so una Regione in dissesto finanziario e con la sanità commissariata (“merito” delle amministrazioni di centrodestra) e l’ha risanata; aveva un’idea di futuro e di buona amministrazione e l’ha messa in atto. E i cittadini lo hanno premiato: con tanti, tantis­simi voti, soprattutto nella Capitale disastrosamente amministrata dalla Raggi. Molto probabilmente è stata proprio la prima cittadina romana ad aver trascinato la candidata grillina Roberta Lombardi fino al terzo posto, una zavorra che le è costata molto. Anche per Stefano Parisi, “il milanese”, non c’è stata partita: la carta tentata dal centrodestra soltanto nell’ultimo mese si è fermato al 31,29%. La spina nel fianco Pirozzi, il sindaco di Amatrice, che non ha volu­to fare un passo indietro, non lo ha davvero aiutato.
E così il Governatore del Lazio vince sfiorando il 34 per cento dei consensi, che è molto di più di quanto ottenuto da tutta la sua coalizione (nella quale c’era anche Liberi e uguali). Si stima che Zin­garetti solo a Roma abbia preso 250 mila voti in più rispetto alla coalizione che lo sosteneva, sintomo che è proprio la sua persona ad aver convinto. Del resto il centrosinistra ha superato nella cir­coscrizione Lazio I appena il 24 per cento, mentre nel Lazio 2 si è fermata poco sopra il 17. Per questo la parola “miracolo” è quella più usata per definire l’impresa.
Un successo tanto eclatante da cui si deve ripartire. Lo ha detto lo stesso governatore, che dopo la vittoria ha parlato ai suoi da Piazza di Pietra, al Tempio di Adriano, lanciando un segnale chiaro: “Ora è il tempo della rigenerazione”. “Si apre una fase al servizio del Lazio per ricostruire la speranza – ha detto Zingaretti -, che è l’opposto dell’odio, della divisione, dell’egoismo, del capro espiato­rio, del cavalcare le paure dei cittadini. Una nuova fase importante per rigenerare il centrosinistra”. Non può mancare anche il riferi­mento alle elezioni politiche: “Il voto del Lazio è importante perché è avvenuto nello stesso giorno della più devastante sconfitta per le forze del centrosinistra della storia della Repubblica. E’ un voto totalmente in controtendenza, che segna che siamo vivi, vitali e vit­toriosi. Da questo mi muoverò”.
In questi giorni si tireranno le somme e sarà così più chiara la composizione dell’aula del consiglio regionale. Sarà una Pisana di­versa dalla precedente legislatura, Zingaretti e i suoi non avranno i numeri degli ultimi cinque anni, ma per il governatore la priorità era vincere per dare continuità all’azione amministrativa. E ci è ri­uscito, alla grande.
ELEZIONE PRESIDENTE DEL LAZIO
Agnese Rapicetta
CONDIVIDI SU
Nicola Zingaretti
Stefano Parisi
Roberta Lombardi
Sergio Pirozzi
33,2
31,4
27,2
4,9
5.276 sezioni su 5.285
LEGGI SU DEMOCRATICA.COM
Partito democratico
Ripartiamo dai territori
Un partito percepito come lon­tano dalla realtà, vicino all’e­stablishement e ai poteri forti, chiuso nel palazzo, intento a raccontare un Paese che non c’è, distante dai bisogni delle persone, e via dicendo. Sono tante e diverse le spiegazioni che, da dentro e da fuori il Parti­to democratico, osservatori, iscritti e militanti provano a dare del risultato del voto, come è giusto che sia dopo una sconfitta netta come quella registrata domenica scorsa.
Ma da qualche parte, nonostante il bruciore delle ferite, bisognerà pur ripartire. Ecco per­chè abbiamo pensato di dare spazio e ascolto alle tante voci che si sono spese per il Pd nei territori, per provare a indagarne impressio­ni, bisogni e critiche: uno spazio di riflessione che Democratica offre a chi più di tutti lavora a contatto con le persone, per provare a ca­pire cosa si è rotto nella “connessione senti­mentale” con il Paese.
Per questa prima puntata partiamo dal Pie­monte, dove a Torino il Pd ha registrato un dei pochi dati in controtendenza rispetto alla media nazionale, attestandosi come primo partito con il 26,31% dei voti e una crescita in valori assoluti di quasi 10mila voti rispetto alle amministrative del 2016. “I torinesi han­no visto all’opera i grillini – spiega Davide Ga­riglio, segretario piemontese del Pd e fresco di elezione alla Camera -, e a differenza di Roma, qui c’è sato un differenziale in negativo più netto rispetto alla passata amministrazione”.
Ma quasi l’8% in più rispetto alla media nazionale si spiega probabilmente anche con altro, e in effetti, ci dice Gariglio, “sulle can­didature non abbiamo avuto grossi problemi. Prima di confrontarmi con Matteo Renzi ho chiesto alle Federazioni provinciali di indivi­duare le migliori, e insieme abbiamo conve­nuto di ascoltare circoli e amministratori”. Il risultato è che “i nomi dei candidati sono stati tutti piemontesi, al netto di due ministri capo­lista”.
Anche il rapporto tra maggioranza e mi­noranza del partito qui pare sia andato me­glio che altrove. “Avevamo 20 parlamentari uscenti della minoranza – spiega il segretario regionale – e abbiamo rispettato le priorità che si sono dati in quell’area”.
Un metodo confermato da Anna Rosso­mando, esponente della minoranza eletta alla Camera, che dal dato piemontese trae un ragionamento politico: “Dove si è seguito un metodo diverso e si è tenuto conto della pluralità qualche risultato c’è stato, penso a Torino ma anche al Lazio di Zingaretti. La questione non è litigare o meno, perchè è giusto avere più voci, quanto avere un partito plura­le che riesca a parlare a tutti. Adesso dobbiamo ri­costruire un’impostazione politica che guardi di più al sociale e che parli di più alla sinistra”.
Dunque la formula magica è l’a­scolto di minoranze e territori? “I circoli non hanno sempre ragione, ma in questo caso si è riusciti a mediare creando un quadro equo”, spiega Gariglio, per il quale una possibile spiegazione della sconfitta sta però anche in una campagna elettorale “troppo razionale”. “Abbiamo raccontato le cose fatte e le cose da fare, senza grandi parole d’ordine e sen­za emozione. Lo slogan non è stato coniugato con un sogno, cosa che invece hanno fatto be­nissimo gli altri”.
Quanto ai programmi, aggiunge Gariglio, “rivendico le riforme che abbiamo fatto, ma forse alcune sono state troppo calate dall’alto. Sulla Buona Scuola i sindacati mi hanno detto che intenzioni e risorse erano giuste, ma che poi abbiamo sbagliato le azioni. Purtroppo, una volta fatte le cose vengono date per scon­tate e la gente guarda oltre, altrimenti Chur­chill non avrebbe perso le elezioni dopo aver vinto la Guerra”.
Ma un risultato così eclatante per destra e populisti va cercato solo negli errori del Pd? Anche per Gariglio, come ormai anche gli os­servatori più scettici ammettono, “l’emergere dei populismi è un tema che riguarda tutto il mondo occidentale. A Torino ad esempio la composizione sociale è cambiata, non ci sono più le fabbriche e i lavora­tori sono diversi e più precari, un tipo di elettorato con il quale non riusciamo più a parlare. Nei quartieri po­polari dove c’è più immi­grazione noi abbiamo più difficoltà, e non si tratta di razzismo, ma di pau­ra per il futuro dei figli. Nella prima Repubblica alla paura si rispondeva al­lagando la torta, oggi non si può più , le persone sanno che in più si mangia più piccola è la fetta, ed ecco che emerge chi scom­mette sulla chiusura con i muri e i dazi”.
Una società in trasformazione dunque, alla quale, per Gariglio, un partito come il Pd dare risposte innanzitutto “adeguando la comu­nicazione ai nuovi canali, con una forte pre­senza sui social e un sistema di rete. I vecchi comunisti lasciavano l’Unità sul tram, oggi il sistema di divulgazione passa dai social, ma va strutturato un sistema digitale di comuni­cazione attivo sempre. E anche il sistema di circoli e federazioni, in sofferenza dopo la fine del finanziamento pubblico, va ripensa­to”.
Carla Attianese
CONDIVIDI SU
Qualche traccia di cambiamento:
in Piemonte
il Pd cresce
LEGGI SU DEMOCRATICA.COM
I tre scenari davanti a Sergio Mattarella
Se invece il verdetto non è chiaro, si aprono spazi molto ampi all’i­niziativa del Presidente che può esercitarla in proprio o tramite dei mediatori. Si può trattare di incarichi esplorativi di solito af­fidati a personalità con cariche istituzionali, ossia i Presidenti delle Camere, o a cosiddetti “preincarichi” affidati a esponenti politici. In ogni caso alla fine del percorso occor­re avere una maggioranza in Parlamento.Le elezioni non hanno dato un responso chiaro. A questo punto si aprono tre scenari. Il primo è quello di un governo con una mag­gioranza diversa da quella presentata agli elettori. Siccome però tutti e tre gli schiera­menti si sono presentati cone radicalmente alternativi, chi cambiasse posizione dovreb­be giustificarlo ai propri iscritti ed elettori. Merkel non aveva chiarito quale coalizione volesse e quindi è passata attraverso i nor­mali organi di partito. Invece la Spd che ave­va escluso l’accordo con la Merkel ha dovuto poi coerentemente indire un referendum tra i propri iscritti. Il secondo è il governo di tut­ti, una formula emergenziale transitoria evo­cata specie per cambiare la legge elettorale. Tuttavia con tre poli e due camere che danno la fiducia nessuna legge elettorale può dare un esito chiaro. Il Governo dovrebbe durare più a lungo perché si dovrebbe prevedere an­che una riforma costituzionale relativa al bi­cameralismo e alla forma di governo. Il terzo è il governo di nessuno, ovvero un esecutivo tecnico che tuttavia avrebbe bisogno di una base politica di appoggio: con il che si ricade in realtà in uno dei sue scenari precedenti. Al termine una riflessione sintetica: se non si vuole alimentare l’antipolitica bisogna coinvolgere i cittadini nelle scelte. Il modo migliore è quello di un sistema elettorale ma anche necessariamente costituzionale che individui chiaramente un vincitore. Se esso non c’è e sono necessarie alleanze origina­riamente non previste o addirittura escluse è comunque necessario ottenere una nuo­va legittimazione da iscritti e/o elettori. Non solo in Germania. Tanto più per un partito che si chiama Democratico.
Stefano Ceccanti
Segue dalla prima
CONDIVIDI SU
LEGGI SU DEMOCRATICA.COM
Social
Instagram
Twitter
Facebook

In redazioneCarla Attianese, Patrizio Bagazzini,Stefano Cagelli, Maddalena Carlino, Roberto Corvesi, Francesco Gerace,Silvia Gernini, Stefano Minnucci,Agnese Rapicetta, Beatrice Rutilonidemocratica@partitodemocratico.itPD BobSocietà editrice:Democratica srl Via Sant’Andrea delle Fratte 16 – 00187 Romawww.democratica.comwww.partitodemocratico.itPer ricevereDemocratica: scrivi su Whatsapp a 348 640 9037oppure vai sul messenger Facebookall’indirizzom.me/partitodemocratico.it DirettoreAndrea RomanoVicedirettoreMario Lavia

[download id=”1568″ format=”2″]