Della Redazione Di Democratica
n. 98 lunedì 8 gennaio 2018
“Il nome di uno scrittore, il titolo di un libro, possono a volte suonare come quello di una patria” (Leonardo Sciascia, 8 gennaio 1921-20 novembre 1989)
“
Vincere è possibile
L’EDITORIALE
Spieghiamo i 4 anni di crescita italiana
Matteo Renzi e Marco Fortis
La polemica politica merita rispetto perché è il sale della democrazia. E in tempi come questi, di campagna elettorale, raggiunge vette impensabili.
Ma nessuna polemica politica può cancellare un dato di fatto. Quattro anni fa l’Italia era in crisi nera. Adesso il PIL cresce, l’occupazione sale, la fiducia di consumatori e imprese è ai massimi livelli. Questi risultati sono il frutto di quattro anni di governi a guida PD. E sono il frutto di una serie di scelte variegate ma unite da un filo rosso: il ritorno alla crescita in una dimensione di maggiore giustizia sociale. Ecco spiegate le varie misure: dagli 80 all’IRAP costo del lavoro, dal JobsAct agli investimenti in cultura, dall’iperammortamento alle scelte sul sociale. Su questi temi i fatti e i numeri sono argomenti testardi: la realtà si incarica di smentire i contestatori a oltranza.
Ora la sfida è il futuro. Tornare a Maastricht.
Nel libro “Avanti. Perché l’Italia non si ferma” è stata precisata l’idea di un ritorno a Maastricht. Per le nostre generazioni questa cittadina olandese dal nome difficilmente pronunciabile era sinonimo di austerità.
Stare dentro i parametri di Maastricht sembrava un’impresa quasi impossibile, al punto che quando l’Italia raggiunse quel traguardo, principalmente per merito di uomini del calibro di Prodi e Ciampi, per molti fu festa grande. Oggi Maastricht – paradossalmente – ha cambiato significato. L’avvento nel 2012 di una gabbia di regole eccessivamente rigide come il Fiscal compact ha fatto del ritorno agli obiettivi di Maastricht (deficit al 3% per avere una crescita intorno al 2%) quasi una sorta di manifesto progressista.
Centrosinistra La rinuncia di Maroni accende nuove speranze per Gori e il Pd in Lombardia.
La Destra trova un sostituto, M5s non pervenuto
SEGUE A PAGINA 6-7
A PAGINA 5
GOVERNO
ROMA
Gentiloni in campo: “Pd può essere primo”
Così Virginia Raggi
gioca con la salute
dei cittadini romani
L’incredibile stop and go sui rifiuti della sindaca: prima chiede aiuto all’Emilia, poi torna indietro dopo la rivolta dei suoi, infine mette in mezzo l’Abruzzo.
E la Capitale è piena di mondezza
ALLE PAGINE 2-3
A PAGINA 4
Emergenza rifiuti
Le tappe
dell’emergenza
24 giugno 2016
Virginia Raggi nomina Paola Muraro assessora all’Ambiente. All’epoca Muraro è già indagata per reati ambientali.
11 agosto 2016
Primi tentativi dell’amministrazione di portare i rifiuti della Capitale in altre città. I primi no arrivano da Cassino, San Vittore del Lazio e Orvieto e dalla governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini.
1 settembre 2016
L’amministratore unico di Ama Alessandro Solidoro si dimette in polemica con la giunta Raggi.
5 settembre 2016
Dall’audizione in Commissione Ecomafie emerge che sia Raggi che Muraro sapevano del fascicolo aperto sull’assessora sin dal 18 luglio. La sindaca dichiara di aver informato i vertici del Movimento, ma il Direttorio nega.
25 ottobre 2016
Scoppia il Frigo Gate: dopo un’intervista a Repubblica nella quale la sindaca dà la colpa dei rifiuti a Roma a un complotto contro di lei, parte l’ironia sul web.
12 dicembre 2016
Muraro riceve un avviso di garanzia per presunti reati ambientali e rassegna le dimissioni. Finiscono sotto la lente d’ingrandimento della Procura i suoi rapporti con il “re della monnezza” Manlio Cerroni.
9 maggio 2017
Sui rifiuti scoppia la polemica tra il Comune e la Regione Lazio. Raggi accusa Zingaretti di non voler sbloccare la situazione, ma il governatore dichiara: “Il Comune ci dica quali impianti vuole fare e dove. Noi aiuteremo la città come sempre. Ad ora non c’è nessuna proposta”.
14 maggio 2017
A Roma l’iniziativa organizzata dal Pd: le magliette gialle puliscono le strade della Capitale.
2 gennaio 2018
L’Emilia-Romagna offre aiuto a Roma per i rifiuti, ma il deputato M5S Dell’Orco fa scoppiare la polemica, minimizzando l’aiuto di Bologna alla Capitale. “Proprio senza vergogna”, commenta Bonaccini.
7 gennaio 2018
Retromarcia del Comune di Roma: i rifiuti non andranno più in Emilia-Romagna. Il motivo è la preoccupazione dei vertici M5S per il possibile contraccolpo elettorale.
Roma ostaggio della propaganda grillina
I Cinque Stelle subordinano la qualità della vita e la salute di tre milioni di cittadini alle ragioni della propaganda politica. La tragica gestione dell’emergenza rifiuti a Roma rappresenta in maniera plastica il concetto di bene pubblico che ha il M5s. Che ha ben poco di pubblico e molto di individualistico, se non privato. Già perché, non solo l’emergenza rifiuti è tutt’altro che risolta. Non solo la gestione di Ama è stata poco limpida (per usare un eufemismo). A rendere il tutto ancora più drammatico è la surreale vicenda degli aiuti chiesti e poi ritrattati all’Emilia-Romagna, che si era detta disponibile a dare una mano alla Capitale in crisi. E ora anche quella dell’Abruzzo che, pur essendo anch’essa disponibile, non ha ancora avuto contatti con il Campidoglio.
Il Comune di Roma, tramite la Regione Lazio, ha fatto pervenire a Bologna una richiesta di aiuto nello smaltimento dei rifiuti. Il presidente Bonaccini, nonostante le continue provocazioni dei grillini emiliani, accetta di dare una mano, anteponendo gli interessi dei cittadini a quelli di partito. Poco prima della partenza della monnezza romana verso gli inceneritori dell’Emilia, arriva il niet della Raggi, probabilmente imbeccata da Milano: i sondaggi – che sono diventati l’unica, vera, guida politica e programmatica del Movimento – hanno fatto capire che il soccorso di una Regione governata dal Pd avrebbe pesato negativamente sulla campagna elettorale. Ventiquattrore dopo la stessa scena si ripete con l’Abruzzo, anch’esso governato dal Pd.
Parte allora l’ordine di scuderia: negare che l’emergenza rifiuti esista davvero. Falsificare la realtà per meri fini elettorali in vista del voto nazionale di marzo. Troppo, anche per una macchina propagandistica senza scrupoli come quella del M5s. Le immagini dei cassonetti tracimanti di monnezza imperversano su tutti i siti di informazione, troppo difficile nascondere l’evidenza. E da Ama fanno sapere: “Non ce la facciamo”. Come rivela un articolo pubblicato oggi dal Messaggero, nella lettera inviata alla Regione Lazio con la richiesta di aiuti, si fa riferimento a una “perdurante fragilità dell’attuale assetto impiantistico tale da non garantire, ancora oggi, un’adeguata autosufficienza degli impianti di trattamento di rifiuti”. Tutto questo per non disturbare la corsa di Giggino Di Maio. Tutto questo sulla pelle della Capitale d’Italia.
Stefano Cagelli
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Per
Di Maio e Raggi
i sondaggi nazionali contano più della qualità della vita dei romani
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Emergenza rifiuti
Il Pd pronto a dare una mano
“Per noi i cittadini vengono prima dei compagni di partito”
La società che se ne occupa ha chiesto una mano all’Emilia Romagna che ha dato il via libera tramite il Presidente Bonaccini.
Prima di iniziare a trasferire i rifiuti in Emilia Romagna, la città di Roma ha cambiato idea. I giornali scrivono che da Milano (forse un’azienda privata? forse una società di sondaggi? forse un piccione viaggiatore?) qualcuno ha suggerito alla sindaca di non farsi aiutare da un amministratore del PD come Bonaccini.
Allora la città di Roma ha chiesto una mano alla Regione Abruzzo che ha dato il via libera tramite il Presidente D’Alfonso. Temo che nelle ultime ore si siano accorti che anche D’Alfonso è iscritto al PD. E quindi si è bloccata anche questa soluzione.
Nel frattempo a Roma i cassonetti sono pieni.
Secondo me adesso diranno che la colpa è del PD.
Perché la colpa è del fatto che Bonaccini e D’Alfonso sono iscritti al PD. Se solo si fossero iscritti al Blog, anziché al PD, oggi Roma sarebbe linda e pulita.
Scherzi a parte: per favore, sui rifiuti non si scherza. I nostri amministratori non fanno polemiche di parte. Siamo pronti a dare una mano alla Città di Roma. Perché per noi i cittadini vengono prima dei compagni di partito. E allora fatela finita con queste polemiche e ripulite la Capitale. Noi vi diamo una mano, se la volete. Noi ci siamo
Matteo Renzi
“Noi disponibili, ma Raggi parli chiaro”
“Èsurreale, loro ci avevano chiesto aiuto”
“Una vicenda così surreale non mi era mai capitata, pur con anni di esperienza da amministratore alle spalle”. Così, intervistato da Repubblica, il governatore Pd dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini commenta il caso dei rifiuti romani all’indomani del mancato avvio dei carichi dalla Capitale all’Emilia Romagna. “Ce lo hanno chiesto loro. Poche settimane fa l’azienda Ama ha inviato alla Regione Lazio la richiesta di sottoscrivere un accordo con la Regione Emilia-Romagna. Da prassi la Regione Lazio ci ha girato la comunicazione formale il 20 dicembre scorso”.
“Fatte le verifiche con i Comuni dove ci sono i nostri impianti, che avevano dato disponibilità sempre nei limiti autorizzati, (Parma, Modena e Granarolo, nel bolognese), dissi al presidente Nicola Zingaretti che avremmo dato l’assenso con una delibera di giunta. Ma, lo abbiamo premesso subito, a certe condizioni”.
Ovvero: “Quantità limitate, per un periodo non reiterabile di non più di due mesi. Ci siamo messi a disposizione, come istituzione, perché l’immagine di una capitale con l’immondizia in strada non ci pareva utile, né per Roma, né per il Paese”. Poi la frenata dei vertici del Movimento 5 Stelle.
“Si decidano”, dice ora Bonaccini. “Noi stiamo bene anche senza l’immondizia di Roma. Per altro, se è vero ciò che ho letto oggi, e non ho motivo di dubitarne, Ama ipotizza di portare i rifiuti in Abruzzo. Ma così non è che cambiano i termini della questione: sempre ad altri si rivolgono perché non riescono a smaltire ‘in casa’ la loro spazzatura”.
“L’ho letto sui giornali. Non siamo insensibili nei confronti dei problemi della capitale. Siamo interessati ad essere solidali e responsabili ma aspettiamo di sapere quali sono i termini della questione. Vogliamo sapere la quantità e la qualità dell’emergenza. Non c’e’ stata al momento alcuna richiesta da istituzione a istituzione. Io mi preparo in anticipo. Chiederemo un curriculum della situazione. Siamo disponibili ad essere responsabili nei confronti della Capitale d’Italia”. Lo ha detto Luciano D’Alfonso, presidente della Regione Abruzzo questa mattina al Gr1.
“Prima – ribadisce D’Alfonso in un’intervista al Messaggero – la Raggi deve riconoscere che c’è un problema, dire la verità sui numeri dell’emergenza. Stiamo parlando della Capitale d’Italia, serve una condotta istituzionale, non una condotta fatta di fesserie…”.
Il primo step è comunque legato al vaglio di tutte le possibili soluzioni: “Chiederemo al Campidoglio di spedirci un report sulla situazione dell’immondizia. Devono dirci se c’è l’emergenza o no. Anche perché l’Abruzzo già da tempo accoglie i rifiuti di Roma, se dovessimo intervenire di nuovo si tratterebbe di una quota aggiuntiva, che andrebbe adeguatamente motivata”.Una cosa è certa, D’Alfonso non ha alcuna intenzione di accettare traccheggiamenti e giochetti propagandistici. “Alla condotta istituzionale di Bonaccini hanno risposto con delle fesserie. Se c’è un problema non si sta a guardare il colore politico della Regione. Qui c’è in gioco la Capitale e la sua immagine”.
Stefano Bonaccini
Presidente Regione Emilia Romanga
Luciano D’Alfonso
Presidente Regione Abruzzo
“Prima la richiesta d’aiuto. Poi il passo indietro. L’immagine di Roma va difesa”
“Serve una condotta istituzionale da parte del Campidoglio”
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Partito democratico
A Reggio Emilia
per celebrare il Tricolore
Gentiloni: “Al Paese
serve dialogo, non odio”
Bandiera e Costituzione: due simboli da cui l’Italia può e deve ripartire, sempre, ma soprattutto adesso che la legislatura sta per finire. Riscoprendo la propria identità, fatta di pace e accoglienza, per guardare con ottimismo al futuro. Ieri nel suo primo discorso del 2018, il premier Paolo Gentiloni ha lanciato da Reggio Emilia, dove ha partecipato alle celebrazioni per il 221/o anniversario del Tricolore, un messaggio di fiducia invitando a non disperdere le tradizioni, così come i risultati ottenuti dai governi a guida Pd. A nessuno, ha detto, “può essere consentito di usare il Tricolore come vessillo di odio. Deve essere il vessillo del nostro Paese impegnato per il dialogo e la pace”. “Bisogna investire anche sull’identità nazionale – aveva spiegato poco prima il premier ad alcune scolaresche nel municipio di Reggio Emilia – senza averne paura: sarebbe il modo migliore per lasciare campo aperto a chi, con una visione distorta, vuole costruire odio e conflitti”
Dalla giornata di ieri è emerso quanto Gentiloni sia ormai uno dei principali protagonisti della campagna elettorale, anzi, con Renzi è uno dei due frontman del Pd. E in serata, alla trasmissione di Fabio Fazio Che Tempo Che fa, ha sottolineato le capacità di governare del centrosinistra: “Il proseguimento di questa nuova stagione di ripresa economica – ha detto – è nelle mani degli elettori che il 4 marzo dovranno scegliere fra tre blocchi. Spero che gli italiani non scelgano il ‘Rischiatutto’ ma puntino piuttosto a confermare il Pd, che ha una squadra di governo di gran lunga più credibile”.
Gentiloni ha ribadito anche come non sia il tempo di non disperdere i risultati ottenuti: “La congiuntura economica finalmente favorevole può tradursi in conseguenze positive dal punto di vista sociale”. Ma ora “cambiare marcia significherebbe assumersi una responsabilità gravissima. Non è la stagione delle cicale quella che abbiamo davanti, non può esserci una chiusura impaurita nel piccolo mondo antico delle paure quotidiane”.
Una cosa deve esser chiara ai cittadini: queste decisioni sono tutte nelle loro mani il 4 marzo, e i retroscena che lo vedono ancora a Palazzo Chigi dopo le urne o a causa del pareggio o per eventuali governi di larghe intese, lasciano il tempo che trovano: “Io ho un impegno che finisce con le elezioni. Se pensiamo che le elezioni sono un adempimento – ha spiegato – e poi continua tutto come prima, non faremo un servizio alla democrazia. Le elezioni sono importantissime, ogni cittadino può dire la sua, e le elezioni determineranno chi governerà, non l’inerzia o una alchimia”.
Democratica
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Matteo Renzia QN: “Le nostre priorità sono lavoro, Europa e cultura. Partiamo dai risultati raggiunti e per il futuro indicheremo obiettivi concreti”
“Tutti promettono di abbassare le tasse, ma non lo fanno. Berlusconi aveva cancellato l’Ici nel 2008 ma poi ha rimesso l’Imu nel 2011”. Ad affermarlo è il segretario del Pd Matteo Renzi in un’intervista a Qn, che invece sottolinea quanto è stato fatto dai governi a guida Pd: “Noi abbiamo tolto Imu e Tasi, cancellato l’Irap costo del lavoro, abbassato Ires dal 27.5 al 24%, lavorato sulle tasse agricole, favorito i Pir e fatto decine di altre misure in ambito fiscale. Ma bisogna fare di piú”.
E alla domanda su chi sarà il Premier dopo il 4 marzo risponde: “Noi siamo una squadra. Penso che un premier del Pd sia garanzia per gli italiani, non solo per i nostri iscritti. Perché la destra di Forza Italia e della Lega è la destra dello spread, quella che ci ha lasciato a un millimetro dalla bancarotta. Il movimento Cinque stelle è un salto nel buio, come dimostrano i rifiuti di Roma o i vaccini. Il Pd invece ha fatto ripartire l’Italia”
“La nostra squadra
di governo è
di gran lunga la più credibile“
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Focus
I punti del programma
Fare, meglio. Libera la forza della Lombardia. I punti del programma del candidato Presidente del centrosinistra:Non solo Milano: Costruzione di una strategia di tutto il bacino padano, in cui Milano riversi sul territorio lombardo il suo contributo di innovazione e contemporaneamente tragga forza dalla grande piattaforma produttiva lombarda.
Sanità
Oltre le eccellenze, coltivare anche una dimensione di medicina di territorio, fatta di poliambulatori e di luoghi di cura più vicini a dove le persone vivono.
Immigrazione, legalità, sicurezza
Sviluppo fin dalla prima accoglienza di politiche formative, che vuol dire anzitutto togliere i migranti dalle strade. La proposta è di 20 ore a settimana scuola e 20 ore in laboratorio e al lavoro per i migranti. Formazione + lavoro + legalità = sicurezza.
Infrastrutture
Priorità agli investimenti che consentiranno di decongestionare le strade e limitare gli spostamenti. Una mobilità efficiente e a basso impatto ambientale è parte di una nuova economia della sostenibilità.
Fare, meglio. La scommessa di Gori per la Lombardia
“Io vedo Giorgio Gori presidente della Regione Lombardia”. A parlare è il vicesegretario del Pd Maurizio Martina, che non nasconde ottimismo in vista dell’appuntamento elettorale, a maggior ragione dopo la rinuncia a ricandidarsi del presidente leghista Roberto Maroni. “In questi anni – ricorda Martina – abbiamo assistito a scontri tra Maroni e Salvini, Lega e Forza Italia. La Lombardia, checché ne dica la propaganda leghista, non ha una guida forte, la presenza della Regione su territorio non c’è”.
Il Partito Democratico ha individuato in Gori, dopo la positiva esperienza come sindaco della città di Bergamo, la persona giusta per dare alla Regione la guida che le manca. E mai come in questa tornata c’è la convinzione di potersela giocare fino in fondo. “Giorgio è la persona giusta – conferma il segretario regionale Alessandro Alfieri – ha le idee e i progetti giusti per migliorare la sanità, i trasporti e la qualità del nostro ambiente. Faremo tutto quello che serve in queste settimane per far conoscere la sua e la nostra proposta a tutti i cittadini lombardi”.
Un’impresa ardua ma non impossibile. Il centrodestra in Lombardia parte comunque con i favori del pronostico. La concomitanza delle elezioni regionali con quelle nazionali potrebbe ostacolare la corsa del sindaco di Bergamo ed anche le incertezze di Leu sulla coalizione rischiano di limitare il campo del centrosinistra e quindi le possibilità di vittoria. “Il 4 marzo con Giorgio Gori – spiega Pietro Bussolati, segretario metropolitano del Pd di Milano – dobbiamo rilanciare la Lombardia e portarla finalmente a competere con le grandi regioni europee per mettere a frutto tutta la sua potenzialità. Oggi più che mai sarebbe sconsiderato e folle andare divisi come centrosinistra”.
Lo stesso Gori, però, non si fa intimidire e sembra realmente convinto di poterla spuntare: “Èora di cambiare, innovare, recuperare quello slancio che è nelle corde dei cittadini di questa regione. La nostra proposta concreta si chiama lavoro, crescita, donne, legalità, giovani, ambiente, Europa. Nei prossimi due mesi la faremo conoscere a tutti i lombardi. Siamo partiti per tempo, abbiamo buone idee e moltissimi volontari pronti a mobilitarsi nei territori. La concomitanza con le elezioni politiche non ci spaventa. Anzi, più gente andrà a votare e meglio sarà”.
Per Gori, “la dimensione del civismo è determinante nel voto regionale: punto molto su questo anche per far sì che qualcuno che magari alle politiche voterà per il centrodestra possa decidere alle regionali di votare per noi. Non temiamo l’effetto traino e non mi pare che si veda nei sondaggi che abbiamo che, nonostante segnalino un calo nelle ultime settimane del Pd, vedono invece in crescita la mia posizione”.
Per quanto riguarda la posizione da tenere con Liberi e Uguali, infine, il candidato presidente ha detto: “Credo che sarebbe una cosa difficile da spiegare agli elettori il fatto che in questa regione dove abbiamo l’opportunità di voltare pagina dopo tanto tempo i percorsi siano diversi. Lo dicono anche gli elettori di Liberi e Uguali che sperano che ci sia la capacità di mettere insieme le forze anche perché non ci sono motivi di divisione né politici né personali. Quindi la porta non è aperta, è spalancata”.
Democratica
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“Oggi più che mai sarebbe sconsiderato e folle andare divisi come centrosinistra”
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Fondazione Eyu
NUMERO2INVERNO 2018LA VIA DELLA CRESCITA
Quattro anni di crescita grazie
al Partito
Democratico
Perché oggi, sulla base dei risultati raggiunti, l’Italia può andare a testa alta in Europa
e chiedere una diversa politica comune
per crescita e investimenti
Matteo Renzi e Marco Fortis
Segue dalla prima
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Esce oggi il secondo numero di EYU, Europe Youth Utopia, trimestrale della fondazione EYU. Il numero è dedicato interamente al tema della crescita, analizzato sotto vari profili, da quello economico a quello imprenditoriale passando per scienza, sociale e innovazione. Vi segnaliamo tra gli altri – oltre all’articolo di Matteo Renzi e Marco Fortis che pubblichiamo in anteprima su Democratica – gli interessanti contributi di Tommaso Nannicini, Matteo Del Fante, Giorgia Pontetti e Roberto Defez.
Il trimestrale è dotato anche di una seconda parte culturale più “frizzante” dedicata a teatro, letteratura, cinema, serie tv e molto altro ancora.
La rivista EYU è scaricabile gratuitamente
cliccando qui.
Buona lettura.
L’idea di fondo è che il Fiscal compact vada drasticamente ripensato e riprogettato per stabilire un percorso di lungo termine che non rinunci al rigore sui conti pubblici ma permetta nello stesso tempo anche un solido sentiero di crescita senza la quale lo stesso rigore fallirebbe i suoi obiettivi. Ciò non significa che l’Europa non debba avere delle regole fiscali a cui tutti i Paesi membri debbano attenersi. Ma devono essere regole sagge, che permettano al nostro continente di rinsaldarsi e non di disgregarsi.
Siamo tutti consapevoli che il debito pubblico è uno dei principali problemi dell’Italia. Il debito pubblico è un freno alla nostra crescita e un pesante fardello che non possiamo lasciare in eredità ai nostri figli senza avere provato ad alleggerirne almeno in parte l’enorme peso. Il debito pubblico è anche un elemento di vulnerabilità per la credibilità internazionale del nostro Paese. Inefficienze, spese incontrollate e rendite politiche distribuite a pioggia per anni hanno portato il nostro debito pubblico a superare la fatidica soglia del 100% del Pil nel 1992 fino a toccare un primo massimo storico del 117% nel 1994. Da allora, soprattutto per merito dei Governi di centro-sinistra e nonostante che nei primi anni del nuovo secolo l’Italia non abbia sfruttato con i Governi di centro-destra l’opportunità dell’euro per fare di più, il rapporto debito/ Pil è stato temporaneamente riportato sotto la soglia del 100% nel 2007 (Governo Prodi). Poi siamo entrati nel lungo tunnel della crisi finanziaria e dello spread.
Sentiamo affermare in questi mesi da vari rappresentanti del centro-destra e del M5S, nonché da esponenti e supporter dei Governi dell’austerità che hanno operato nel 2012-2013, che i Governi Renzi e Gentiloni sarebbero stati “lassisti” in materia di contipubblici. È bene subito chiarire come stanno le cose, a scanso di equivoci. Dividiamo dunque l’ultimo decennio in tre precisi periodi distinti, facendo riferimento ai dati ufficiali della Commissione Europea (Economic and Financial Affairs, General Government Data. Autumn 2017, p. 156):
• la fase del binomio crisi finanziaria-spread durante il
Governo Berlusconi IV (2009-2011);
• la fase del binomio austerità recessione dei Governi
Monti e Letta (2012-2013);
• la fase del binomio flessibilità-ripresa dei Governi
Renzi e Gentiloni (2014-2017).
Durante il Governo Berlusconi IV, rispetto ai livelli di fine 2008, il valore monetario del debito pubblico italiano è cresciuto nel triennio 2009-2011 di 237 miliardi di euro, cioè è aumentato in valore assoluto ad una media di 79 miliardi/anno.
Durante i Governi Monti e Letta (con il sostegno, tra gli altri, anche del Partito della Libertà) nella fase dell’austerità del biennio 2012-2013 il debito pubblico è aumentato di altri 162 miliardi, con un incremento medio annuo di 81 miliardi.
Infine, durante i Governi Renzi-Gentiloni, nella fase della flessibilità, il valore del debito pubblico è cresciuto nel quadriennio 2014-2017 di 196 miliardi, di euro, aumentando quindi ad una media annua di 49 miliardi nettamente inferiore a quella dei precedenti tre governi.
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Fondazione Eyu
Da questi dati appare inconfutabile una prima evidenza: il tasso medio annuo di aumento del valore monetario del nostro debito pubblico è stato quasi doppio in termini assoluti non soltanto durante il Governo Berlusconi IV ma anche durante i Governi Monti e Letta rispetto ai Governi della flessibilità Renzi e Gentiloni.
Ma il vero problema del debito pubblico non risiede tanto nel suo valore assoluto quanto nella sua sostenibilità in rapporto alle dimensioni del Paese di riferimento e alla grandezza della sua economia. Alla fine del 2016, ad esempio, il debito pubblico italiano era di 2.218 miliardi di euro, cioè non molto più alto di quello della Francia (2.151 miliardi) e della Germania (2.140 miliardi). Ma le economie francese e tedesca e i relativi Pil sono, come è noto, più grandi rispetto all’Italia. Quindi, posto che il modo più utilizzato dalle istituzioni internazionali e dalle agenzie di rating per valutare la sostenibilità del debito pubblico di un dato Paese è convenzionalmente il suo rapporto rispetto al Pil, ciò che va considerato con più attenzione è il livello del debito/Pil e la sua crescita. Ed è precisamente da questo angolo visuale che, sempre per esemplificare, il nostro debito pubblico è giudicato più “alto” di quelli francese e tedesco.
Ciò premesso, è perciò importante sottolineare una seconda evidenza. E cioè che durante il Governo Berlusconi IV il rapporto debito/Pil dell’Italia è aumentato dal 102,4% del 2008 al 116,5% del 2011, incrementandosi di ben 14,1 punti, cosa di cui vari esponenti politici del centro-destra sembrano essersi completamente dimenticati. Fu anche per questa ragione che nel 2011, durante la crisi dei debiti sovrani, lo spread dell’Italia si impennò. Poi, durante i Governi dell’austerità Monti e Letta, il debito/Pil è comunque salito ancora dal 116,5% del 2011 al 129% del 2013, aumentando quindi di altri 12,5 punti. Ciò per un ragione molto semplice. Anche se i conti pubblici vengono tenuti in ordine ma se nel frattempo il Pil crolla a causa di misure economiche troppo recessive il debito/Pil non si riduce affatto, anzi può crescere molto. Sotto questo aspetto il caso dell’Italia è veramente il più paradigmatico del fallimento delle politiche di austerità in Europa propugnate da alcuni Paesi nordici e da varie correnti di pensiero.
Viceversa, durante i Governi Renzi-Gentiloni non solo il rigore nei conti non è venuto meno, anzi è proseguito, come dimostra il calo del deficit/Pil annuo dal 3% del 2014 al 2,1% del 2017. Ma contemporaneamente, grazie alla flessibilità strappata a Bruxelles dal Governo Renzi rispetto alle regole del Fiscal Compact, si è anche potuto riportare l’Italia alla crescita con tagli di tasse e misure per rilanciare gli investimenti. E con il binomio flessibilità-crescita il nostro debito/Pil si è finalmente stabilizzato. Durante il Governo Renzi, infatti, nel 2015 il debito/ Pil italiano è calato per la prima volta dal 2007 e nel 2016-2017 si è successivamente stabilizzato intorno al 132% con la prospettiva di scendere al 130,8% nel 2018 (secondo le previsioni della stessa Commissione Europea).
Tornare a Maastricht, quindi, significa aver imparato la lezione di una austerità che nel biennio 2012-2013 non ha ridotto il debito/Pil della terza più importante economia dell’Eurozona ma anzi, facendo crollare la crescita, lo ha fatto aumentare quasi quanto il Governo Berlusconi IV. Volendo fare un paragone automobilistico, in quel biennio il debito ha continuato a girare in pista, anche se meno velocemente di prima, mentre il Pil rimaneva fermo ai box. Risultato: nonostante le migliori intenzioni che possono averla animata, con l’austerità abbiamo lasciato in eredità ai nostri figli un debito/Pil più alto di prima e non più basso.
Tornare a Maastricht significa che l’Italia deve spiegare bene in Europa che il suo voler modificare il Fiscal Compact non è ispirato dal desiderio di ripristinare un lassismo sui conti pubblici di antica memoria ma dalla volontà di rifondare la moneta unica su regole migliori, che realmente ci guidino su un sentiero che sia contemporaneamente di “stabilità” e “crescita”, come nello spirito originario del Patto omonimo: l’unico sentiero che possa davvero permettere di ridurre i debiti/Pil dei Paesi più indebitati.
Tornare a Maastricht significa continuare con la razionalizzazione della spesa, riducendo gli sprechi, valorizzando quando possibile il patrimonio statale e mantenendo il deficit sotto il fatidico 3%, rafforzando però nel contempo la crescita del Pil, la ripresa dell’occupazione e degli investimenti. Come? Proseguendo sul sentiero della flessibilità. E riprogettando l’attuale Fiscal Compact, che non è una razionale ricetta economica ma una camicia di forza sproporzionata, probabilmente figlia dei suoi tempi di paura e sfiducia, che non dà slancio all’Europa bensì la frena e la indebolisce.
Tornare a Maastricht significa evitare di ingessare i tempi di riduzione del rapporto debito/Pil entro meccanici schemi di politica economica legati unicamente alla produzione di giganteschi avanzi statali primari (prima del pagamento degli interessi). Questa ricetta ha dimostrato chiaramente di non funzionare. Eppure anche in Italia c’è un partito che oggi “sogna” un avanzo statale primario del 4% che possa miracolosamente abbattere il nostro debito pubblico. È lo stesso partito di critici e lamentatori di professione che cambiano continuamente casacca e che quando c’era la recessione sognavano la crescita (che oggi finalmente c’è) dimenticandosi o facendo finta di non capire che la recessione di cui si lamentavano molto (allora) era stata causata dalla austerità che molti di essi avevano inizialmente invocato o applaudito. La stessa austerità che adesso il partito dell’avanzo primario al 4% vorrebbe riproporre. Sarebbe una pura follia perché un simile obiettivo fiscale “ammazzerebbe” il Paese e ci farebbe ripiombare in una profonda crisi vanificando tutti gli sforzi fatti in questi anni per ritornare alla crescita pur garantendo l’equilibrio dei conti. E il debito/ Pil salirebbe fatalmente ancora di più, portandosi a livelli più alti e più faticosi da abbattere di quelli di oggi, perché, nuovamente, il Pil si fermerebbe ai box per qualche anno (esattamente come nel 2012-2013).
Tornare a Maastricht significa anche giungere ad una valutazione più oggettiva della stessa sostenibilità dei debiti pubblici, sostenibilità che non può più basarsi sulla sola misura del rapporto debito/Pil ma deve tenere conto anche di altri parametri complementari fin qui trascurati. Se ne possono citare due su tutti, che l’Italia, diversamente da molte altre economie, ha ampiamente dimostrato di essere in grado di rispettare negli anni. Il primo è la capacità di un Paese di produrre non episodicamente ma con continuità nel tempo un livello “base” di avanzo statale primario che sia proporzionato alla quota di debito finanziata da investitori non residenti rispetto al proprio debito pubblico totale. Nel caso dell’Italia, ad esempio, ciò significa che il nostro Paese è in grado ogni anno, con il suo avanzo statale primario sempre superiore all’1,5% del Pil, di pagare “in contanti” gli interessi sul proprio debito pubblico almeno ai sottoscrittori stranieri. È un requisito che palesa la reale onorabilità di un debito sovrano di cui bisognerebbe tenere maggiormente conto e che andrebbe anche maggiormente reclamizzato tra gli investitori e gli analisti finanziari. Il secondo elemento è rappresentato dalla ricchezza finanziaria privata di un Paese in rapporto alla quota del suo debito pubblico sottoscritta da investitori residenti. È del tutto evidente che una economia con un basso livello di ricchezza privata non può permettersi di finanziare con proprie risorse interne il debito stesso e quindi deve ricorrere al finanziamento di investitori stranieri. L’Italia ha certamente un elevato debito pubblico totale in rapporto al Pil ma, diversamente da altri Paesi il cui debito è meno sostenibile ed affidabile, è in grado di finanziarne una notevole parte con proprie risorse interne. È anche per questa ragione che il debito pubblico italiano finanziato da stranieri in rapporto al Pil è, ad esempio, percentualmente simile a quello tedesco e inferiore a quello francese. È chiedere troppo che il nuovo Fiscal Compact tenga conto anche di questi altri due importanti elementi per valutare comparativamente i debiti sovrani e disegnare tempi di rientro più ragionevoli dei rapporti di debito/Pil? Non solo. Anche alla luce di questi elementi è altrettanto importante che l’Europa non introduca in modo autolesionistico regole o parametri restrittivi sulla detenzione di titoli pubblici da parte delle banche. Ciò perché i titoli pubblici sono in genere assai più onorabili, trasparenti e commerciabili – di sicuro lo sono quelli italiani – dei derivati e dei titoli di “livello 3” che molte banche del Nord Europa detengono nei loro bilanci.
SEGUE DA PAGINA 6
Tornare a Maastricht significa evitare
di ingessare i tempi di riduzione
del rapporto debito/Pil
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